Educare alla libertà o liberarsi dell’educazione?

Quando la libertà diventa una scusa


di Emanuela De Bellis

Avere un figlio oggi significa confrontarsi con mille modelli educativi: il commercio dei libri divulgativi, la presenza di psicologi ai talk show, il reality sulle tate che insegnano come essere genitore… Non è facile orientarsi in mezzo a questo divampare di messaggi, spesso contraddittori tra loro.

In questo panorama, c’è una tendenza, in voga soprattutto nella generazione dei “figli dei figli dei fiori”: il “lo lascio libero di scegliere”.
Figlio probabilmente di un filone di ispirazione sessantottina, rielaborato da chi il 68 non l’ha fatto ma ne ha avuto accesso tramite i genitori, questo pensiero trova le sue origini nella convinzione che il bambino, se lasciato libero di scegliere, è in grado di soddisfare da solo i suoi bisogni primari e secondari. Lasciarlo libero, inoltre, gli permette di essere educato alla libertà, e di crescere rifiutando gli schemi che il mondo esterno tenterà di imporgli, gestendo le sue scelte in maniera autonoma.

Sicuramente il bambino, se messo in condizione di essere ascoltato, è in grado di comunicare i suoi bisogni: questo vale (incredibilmente a dirsi) soprattutto per i primi due anni di vita. Il bambino appena nato comunica i suoi bisogni in maniera chiara, attraverso il pianto. Attraverso il pianto, comunica quando ha fame, quando vuole essere cambiato, quando ha bisogno del contatto fisico, quando ha sonno. Crescendo, se abituato ad ascoltare i propri bisogni e a comunicarli, è in grado di autoregolarsi sui cicli alimentari, sull’esplorazione di cibi diversi, persino sui ritmi circadiani. E’ completamente assente in lui (non smetterò mai di ripeterlo) la capacità di manipolare la comunicazione attraverso il pianto per assecondare suoi vizi o capricci.

Arriva un momento, però, in cui il bambino comincia ad avere dei bisogni più complessi: per esempio comincia ad avere bisogno di muoversi in autonomia, ma di sapere che c’è una base sicura; di costruire una propria identità, anche partendo dal contrasto con l’Altro; di maneggiare le sue capacità relazionali con i pari, anche passando per i litigi.

E’ qui che la faccenda diventa più complessa, perché ascoltare i bisogni dei bambini significa anche accettare il fatto che si possano arrabbiare, che possano piangere, che possano avercela con noi; accettare, in altre parole, che possano aver bisogno di litigare, di scontrarsi, di ricercare il limite per mettere alla prova le proprie forze.
Ascoltare i loro bisogni non deve mai diventare un dilagare dentro di loro, ma un ascolto attivo da una prospettiva adulta, di chi si pone come guida attenta alle necessità di chi è guidato. Noi adulti siamo e rimaniamo il loro punto fermo, attorno al quale si posizionano per strutturare ciò che sono e ciò che saranno: quando cominciano a dire “Io”, “No”, e “Mio”, non stanno provando a definire i propri bisogni, ma stanno cercando di capire qualcosa sui confini. Vedetela come una serie di esperimenti che loro fanno per capire quanto è sicura la base, quali sono le loro forze, quanto si possono appoggiare e quanto si possono staccare.

Smettere di fornire una direzione non è lasciare libertà, quanto piuttosto delegare a loro la responsabilità di scegliere cosa è meglio, privandoli di una delle esperienze più importanti nell’infanzia: affidarsi a un altro, sicuri di essere protetti.
Questo non vuol dire assolutamente cominciare ad assumere uno stile autoritario; vuol dire continuare ad ascoltarli dando loro la sicurezza che ci sarete a prescindere dalle loro scelte e dai loro movimenti.

Un’altra precisazione da fare è sulla credenza che, lasciando il bambino libero di fare scelte autonome sulla convivenza con il resto del mondo, lui svilupperà un pensiero autonomo e libero da schemi; questa convinzione investe gli aspetti più disparati della vita comunitaria, dal rispetto degli impegni, al comportamento con i coetanei, fino alle scelte pratiche (dal battezzarlo alla scelta dei giochi). Nelle mie esperienze lavorative quotidiane, vedo moltissimi genitori che per “lasciarlo libero”, non insistono sul rispetto degli impegni presi, sulle accortezze verso i coetanei, sull’accettazione del diverso, sulle scelte religiose.

Non pensate che vostro figlio possa essere libero di scegliere perché non gli avete mai imposto una regola.
I bambini non vivono nell’indeterminatezza; ogni gesto, ogni comportamento che assumete, è un messaggio chiaro che mandate loro, e che loro interiorizzano per farne uso in seguito. Se lo lasciate libero di non andare al corso di nuoto perché ha incontrato a un parco l’amichetto, gli state comunicando che l’impegno preso con l’istruttore è meno importante della contingenza casuale. Se lo lasciate libero di escludere un bambino dal gioco perché gli sta antipatico, gli state comunicando che i personalismi sono più importanti della convivenza civile. Se lo lasciate libero di trattare male chi è diverso da lui, gli state insegnando che ci sono persone che puoi trattare male e persone che devi trattare bene. Se non lo fate battezzare per lasciarlo libero di scegliere la sua religione da grande, gli state comunicando che le scelte di credo, di appartenenza, di percorso, non sono aspetti fondamentali della vita, ma elementi accessori, di accessibilità variabile.
Non sfuggite alla responsabilità del messaggio che state inviando ai bambini: riconoscetelo, trasmettetelo con consapevolezza, e lo metterete al riparo da comportamenti contraddittori o messaggi ambigui.

Questo non vuole assolutamente dire che dovete battezzarlo a tutti i costi, né tantomeno obbligarlo sempre ad andare a nuoto: ma decidete cosa insegnargli, perché è una vostra responsabilità. Non sua.

So di risultare particolarmente ripetitiva su questo, ma il punto fondamentale è sempre lo stesso: ascoltare i bisogni del bambino, tenendo presente che gli adulti siamo noi.

E tu? Cosa ne pensi? Come scegli i messaggi da lanciare al tuo bambino? Come ti regoli sull’educazione? Lascia un commento o racconta la tua storia!

 

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