L’ultima volta che abbiamo parlato dei falsi miti diffusi sul ruolo dello psicoterapeuta, avevamo mostrato l’amico. Un’articolazione più particolare di quella dell’amico è quella del confessore, diffusa soprattutto tra gli adolescenti.
E’ una leggenda generata e alimentata da una frase molto comune tra gli adulti, “Lo psicologo ha preso il posto del confessore”; questa frase, nata dalla profonda confusione scatenatasi quando in Italia ha cominciato a svilupparsi questa professionalità legata all’intangibile, ha tentato una risposta facile tramite un’equazione logica: Intangibile=Spiritualità, quindi Psicologo=Confessore. Forse ha contribuito il concetto di peccato e quello del pentimento, fatto sta che il pensiero alla base è quello che confidando i propri segreti più nascosti e proibiti, in qualche modo si possa guarire dal disagio, quasi in una forma di assoluzione. Ne deriva che non si possa tenere nascosto qualcosa al terapeuta, ma bisogna liberarsi di ogni segreto. E su questo punto in particolare insistono spesso i genitori con i propri figli, raccomandando di dire ogni cosa, pena il fallimento della terapia. Immaginate dopo tutte queste ingiunzioni quanto un adolescente si possa sentire a proprio agio quando entra nel nostro studio: deve aspettarsi come minimo un’espressione inquisitoria e una raffica di domande a trabocchetto. Se poi non si è compreso appieno il concetto di “segreto professionale”, dal disagio si può passare facilmente alla mancanza totale di fiducia. Come biasimarli, d’altra parte? Immaginate se foste voi a dover raccontare tutto, ma proprio tutto, ciò che succede all’interno delle vostre camere…
Anche qui, mi sento di rassicurare, sia gli adolescenti che gli adulti: in psicoterapia si lavora sul testo che viene portato dal paziente, quindi sulle situazioni nelle quali ha avvertito il disagio, si è manifestato il sintomo, e così via. Ascoltare i segreti fa parte del lavoro, perché spesso i disagi non fanno parte di quella fetta di noi che mostriamo in pubblico: ma è una conseguenza, non una priorità del lavoro. E, come già detto negli articoli precedenti, non basta rivelare il disagio per farlo passare: bisogna farsene carico, smontarlo e rimontarlo, operando scelte e praticandole ogni giorno.