Omofobo? No, omonegativo!

by Stefano Ventura

Mia cognata è una donna molto simpatica; ha due bambini bellissimi, due forze della natura: per fronteggiarli ci vuole coraggio. Il tipico coraggio delle mamme, ovvero quella sfumatura di eroismo ironico e amorevole che ho sempre ammirato.

Ma se in casa c’è un minuscolo, insignificante ragnetto, l’eroica mamma di cotanta prole semplicemente scappa. Non può in alcun modo fare i conti con quella che per lei è una belva pericolosa, schifosa e velenosa. Insomma regge il bagnetto tutti i giorni, ma un ragnetto ogni tanto la distrugge.

Questa è una fobia, una paura “irrazionale”. Mia cognata sa bene che la sua paura è eccessiva, che non si basa su dati oggettivi – visto che nessun ragno gigantesco stile b-movie anni  ‘50 l’ha mai aggredita – e che è decisamente inadeguata rispetto alle circostanze, visto che lei è una provetta lanciatrice di ciabatte su zanzara e che potrebbe avere ragione del peloso aracnide con lo stesso metodo. Eppure…

Le fobie sono molto diffuse, e molti di noi ne soffrono a diversi livelli. Nei casi gravi, per cui c’è bisogno di un professionista come me e i miei colleghi, la vita sociale viene compromessa pesantemente: pensate se vi sentiste costretti a fermare la macchina improvvisamente in autostrada e a saltar fuori in preda al panico, perché un ragno è apparso sul parabrezza… non c’è da ridere, la vostra vita diventerebbe davvero difficile.

Ora, c’è un termine, che uso impropriamente anche io, sempre più utilizzato nel dibattito, soprattutto politico, che secondo me va chiarito adeguatamente per non incorrere in errori. Il termine è omofobia, che dovrebbe significare “paura per le persone omosessuali”. Questo termine  fu introdotto da uno psicologo (eterosessuale!) di nome George Weinberg nel lontano 1972. Lo coniò in un suo libro molto famoso, che precedette di un anno la cancellazione dell’omosessualità dalla lista delle malattie mentali dell’Associazione Psichiatri Americani (il DSM – III). Il libro si intitolava “Society and the Healthy Homosexual” e il termine “omofobia” descriveva l’avversione patologica nel ritrovarsi in luoghi chiusi con persone omosessuali. Provocatoriamente l’autore partì dal presupposto che se era stato possibile costruire una malattia mentale chiamata omosessualità, era altrettanto possibile costruirne un’altra per indicare chi odiava gli omosessuali.

Dal punto di vista esclusivamente psicopatologico, però, omofobia è un termine problematico. Quanti omofobi conoscete che fuggono urlando da una stanza con un gay, o sospetto tale? Vi immaginate Rosy Bindi o Carlo Giovanardi alzarsi e scappare terrorizzati quando un omosessuale dal pubblico si rivolge loro per fare una domanda? Oppure immaginate Svastichella  fuggire disarmato e terrorizzato scoprendosi all’ingresso del Gay Village, invece che usare una bottiglia rotta per infierire su una vittima inerme?

Inoltre applichiamo il termine omofobia non solo agli individui, ma anche a istituzioni e a larghi strati sociali, che giustificano “razionalmente” la discriminazione verso le persone omosessuali in base a tradizioni religiose o politiche, alla difesa di “diritti” di una maggioranza che si vedrebbe discriminata dalla minoranza degli omosessuali (lo so, l’argomento è ridicolo, ma viene presentato sotto diverse salse) o in base al timore che i comportamenti omosessuali possano diffondersi in tutta la società, portandola inevitabilmente all’estinzione – perché “si sa” che gli omosessuali non si riproducono, con buona pace delle Famiglie Arcobaleno

Anche per questi motivi, una delle scale con cui si misura l’omofobia, la Modern Homophobia Scale di Raja e Sotkes, proposta nel 1998, prevede tre dimensioni – abbastanza inusuali per una “fobia classica”, ossia : la devianza, che misura la percezione dell’omosessualità come una malattia; la socializzazione, che si riferisce al disagio personale avvertito nei confronti di gay e lesbiche e, da ultimo, i diritti, cioè quanto il soggetto ritenga giusto riconoscere diritti alle persone lgbt.

Questo perché l’omofobia, Weinberg stesso lo riconobbe, è una fobia almeno atipica: manca infatti quasi sempre l’evitamento attivo e le manifestazioni di paura, mentre abbondano gli insulti, le aggressioni e i comportamenti discriminatori.

Il dibattito tra gli addetti ai lavori è aperto. E la mia umile opinione è che sia da preferire – tra gli addetti ai lavori si intende – il termine omonegatività. E che invece si continui a usare “omofobia” nel dibattito pubblico, proprio come si usano altri termini poco tecnici come “maschilismo”, “sessismo”, “cattolico” o “laico”. Sono termini, cioè, i cui significati sono costruiti dalla società e dai gruppi che li utilizzano e che non devono necessariamente corrispondere a qualcosa di altamente tecnico. Così preferirei usare il termine omonegatività per intendere un insieme di emozioni, credenze e atteggiamenti ampiamente negativi e discriminatori nei confronti delle persone omosessuali, se dovessi scrivere un articolo scientifico di psicologia.
Ma al di là della “nerditudine” di questa distinzione, perché è importante questo chiarimento?

Perché in questo momento, in Italia, diversi politici si stanno impegnando in una campagna di negazione esplicita e programmatica dei diritti civili delle persone lgbt: Pierferdinando Casini e Rosy Bindi ne sono due esempi. Durante una manifestazione griderei anche io qualche slogan politico come “Bindi omofoba!” ma quando si tratta di pensare (e non si pensa mai abbastanza) occorre riconoscere le differenze e sapere bene che Pierferdinando e Rosy non sono tanto omofobi, quanto omonegativi sui nostri diritti. A giudicare dalle loro dichiarazioni, non ci ritengono direttamente persone disprezzabili in quanto gay, lesbiche, bsx o transessuali, piuttosto affermano che non possiamo avere gli stessi diritti di chiunque altro: se e quando condividere diritti e doveri con un compagno o una compagna, avere dei figli, ovvero costruire una famiglia. Giovanardi invece sembra più un omofobo: da alcune sue dichiarazioni, ho come l’impressione che gli facciamo un po’ senso.

Combattere l’omonegatività non significa tanto far “passare” la paura a chi ci discrimina. Non si tratta più di fare monologhi alla Shylock, bellissimi e patetici, per far sentire agli altri che siamo essere umani come loro, né si tratta più di fare gesti provocatori per rompere un muro di silenzio. Si tratta di argomentare razionalmente che negarci matrimonio e adozioni è soltanto discriminatorio. Come comunità, abbiamo il compito di comunicare la nostra capacità di assumerci i diritti e i doveri che discendono dal condividere la vita con chi amiamo, di educare i nostri figli al pari di chiunque altro, di contribuire, in una parola, al bene comune. Per questo rivendichiamo il diritto che questa capacità venga accresciuta e salvaguardata.

Per il bene di tutti. Anche di Bindy, Casini e Giovanardi.

Tratto da www.nonsonosigmund.it
 
numero di telefono

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.