Psicologi e psicologia ai tempi del Corona virus

In questa pausa dalla frenesia del mondo ho la possibilità di riflettere sulla nostra professione, su come cambia in un momento in cui le comunicazioni diventano virtuali, e la distanza si sente così tanto. La relazione, che è la materia prima del nostro lavoro, rischia di allentarsi, soprattutto se l’unico mezzo è mediato da uno schermo. Ancora di più se dall’altra parte c’è un bambino.

Con gli adolescenti sembra che il problema sia minore: evidentemente sono abituati, o hanno una adattabilità maggiore, essendo sempre vissuti all’interno di una molteplicità di canali di informazione e comunicazione. Quando faccio sedute on line con loro, alla fine sono stremata (evidentemente io non sono altrettanto adattabile…), ma mi sembra di aver raggiunto i nuclei che li riguardano. Nuclei che diventano sempre più problematici, nella convivenza forzata con i genitori, e nella distanza dai loro pari, fulcro della costruzione della loro identità in questa fase di vita. Sedute sempre più intense, fatica sempre maggiore per me, ma con una relazione terapeutica viva, fertile, che germoglia in cambiamenti. Avrebbero bisogno di ancora più strumenti, canali, spazi, in questo momento: impensabile raddoppiare le sedute, ma forse aprire nuovi scenari si può.

Con i bambini invece tutto questo non funziona: non riesco a pensare di entrare in relazione con loro e  di tenerli a parlare per 50 minuti attraverso uno schermo, e quindi per la maggior parte ho sospeso le terapie. Proprio loro, però, avrebbero tanto bisogno, in questo momento, di un sostegno e di un contenimento per affrontare il cambiamento che questa situazione ha portato, e questo sentimento di angoscia mortifera che li circonda, e che rischia di dilagare in loro.  

Loro che non hanno più orari, né strutture, e che hanno un senso della temporalità ancora vago, difficile da proiettare nel futuro. Loro che non possono giocare al parco, esplorare il mondo, incontrare i pari, che devono necessariamente correre poco e stare molto davanti agli schermi. Che hanno genitori preoccupati e nonni che non possono vedere, e che nonostante tutto si entusiasmano per il terrazzo e il cortile, per la musica suonata sui balconi, per i compiti assegnati. Sono quelli che più di tutti subiscono lo stato di cose, perché dipendono totalmente dagli altri, praticamente ed emotivamente, ma allo stesso tempo quelli che avrebbero tutte le risorse per un lavoro terapeutico formidabile. Che però non riesco a tradurre in sedute settimanali on line. Ci vuole una rivoluzione del setting, ancora più forte di quella che già ha attraversato negli ultimi anni la nostra professione (ne parlavo qui).

Il sostegno ai genitori getta qualche seme, ma in una situazione in cui molti di loro sono già angosciati nell’affrontare i mille problemi che insorgono, in cui loro, per primi, avrebbero bisogno di un sostegno (alcuni dei padri che vedo stanno dando seri e preoccupanti segnali di insofferenza, mentre la maggior parte delle madri mi racconta che deve “stringere i denti e sorridere”), lo spazio emotivo per contenere i figli e supportarli spesso non c’è. Si affannano per gestire smart working e cura domestica, scalpitano anche loro per la mancanza d’aria, si preoccupano per la situazione economica, per i loro genitori, i loro amici distanti, per la pericolosità di questo virus. Chiedere loro di essere punto fermo, contenitore, ma allo stesso tempo stimolo per l’apprendimento, per l’elaborazione, per la trasformazione di significati è davvero troppo: potremmo chiederlo agli educatori, che hanno già una serie di strumenti per far fronte alle esigenze dei bambini, e che possono, seppur tra mille difficoltà, destreggiarsi in questa crisi. Ai genitori si può chiedere al massimo di fungere da modello per non lasciarsi andare, di assicurare un esempio di adultità nei rapporti: e già solo questo, per alcuni genitori che ho visto, è un compito al limite delle loro possibilità.

Non possiamo aspettarci che tutti i membri di una famiglia comincino una terapia, in una situazione economica sempre più allarmante nelle sue proiezioni future: né possiamo pensare di elargire semplicemente prestazioni gratuite, visto che la situazione è drammatica anche per noi psicologi, tra gli esclusi degli indennizzi del governo.

Mi chiedo quindi come cambi il significato della nostra professione in questa crisi, e quali occasioni possa portare alla riflessione questo stato di emergenza: è il momento di inventare nuovi scenari per il lavoro della relazione d’aiuto, non solo nuovi mezzi di comunicazione. Immaginare altre declinazioni dell’essere psicologo, altri modi di aiutare, che coinvolgano non solo il video, ma la scrittura, l’ascolto, le immagini. Ripensare il nostro contributo, non più dalla posizione di esperto che elargisce consigli dall’alto, ma da parte del sistema in difficoltà: si parlava dello “psicologo di quartiere”, tempo fa. Forse è arrivato il momento di ripensarci come parte attiva della comunità, a patto di saper rinunciare ad alcuni elementi che finora non siamo riusciti ad abbandonare: cercando di capire quali di questi elementi (penso per esempio alla purezza del setting o alla tendenza alla medicalizzazione) sono funzionali alla relazione terapeutica e quali invece alla garanzia della nostra autorevolezza. Ripensare il senso stesso dell’autorevolezza della nostra professione, che deve provenire da un sapere messo all’interno della relazione con il mondo, e non oggettivato al di fuori di essa. 

In concreto, pensare a modi in cui possiamo davvero aiutare, che vadano al di là di ciò che abbiamo finora esplorato, e conosciuto: senza farci trascinare dalla paura, ma facendoci attivare da essa. Luca Mazzucchelli qualche giorno fa ci ricordava che la paura è il primo elemento chimico dell’entusiasmo: partiamo dalla paura per generare possibilità.

Forse questa è l’occasione per dare una nuova luce vitale  alla nostra professionalità.

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